Sempre la pratica deve essere edificata sopra la buona teoria

Leonardo da Vinci

La teoria del modello

Il modello pone l’attenzione sul sistema percettivo reattivo, ossia sull’insieme di modalità ridondanti con cui ognuno percepisce la realtà, le attribuisce un certo significato e reagisce ad essa.

L’assunto di base dell’approccio strategico è che non esiste una realtà vera in sé, ma tante realtà quante sono le diverse interazioni tra soggetto e realtà, ossia come l’individuo percepisce la realtà e come si relaziona con se stesso, con gli altri e con il mondo.

Da questo deriva che qualunque condizione l’uomo si trovi a vivere è il prodotto della relazione tra se stesso e ciò che vive. Sulla scia di tale prospettiva il disturbo è visto come prodotto da modi rigidi e ridondanti di percepire e reagire alla realtà, le cosiddette tentate soluzioni disfunzionali, ossia tutto ciò che è messo in atto dalla persona e/o dal sistema intorno alla persona per gestire una difficoltà e che, invece di portare alla risoluzione del problema, lo mantiene e lo alimenta, portando alla strutturazione di un vero e proprio disturbo.  

Quando ci troviamo di fronte a una difficoltà – sia essa personale, relazionale o professionale – in genere si tende a mettere in atto strategie già usate in precedenza in casi simili e che si sono rivelate produttive, oppure che già si conoscono bene e che quindi viene spontaneo riproporre. Se la strategia scelta funziona, la difficoltà si risolve in breve tempo.

Capita però che la strategia non funzioni. In questi casi, si può reagire intensificando gli sforzi nella stessa direzione, dal momento che la soluzione pensata appare ancora la migliore, oppure è l’unica che viene in mente o che si è in grado di mettere in atto.

Purtroppo, più si applica una strategia non efficace, più la difficoltà iniziale non solo non si risolve, ma addirittura può complicarsi, trasformandosi in un vero e proprio problema strutturato, un disturbo, che blocca la persona e influisce negativamente sulla sua vita sociale, relazionale, lavorativa e sul suo benessere.

Facciamo un esempio pratico per chiarire i meccanismi finora indicati: la fobia di guidare.

Ciò che determina l’instaurarsi di una fobia specifica non è tanto, come si crede spesso, un evento iniziale scatenante, quanto piuttosto tutto ciò che la persona mette in atto in seguito per tentare di fronteggiare la paura stessa.

Mi spiego meglio: pensiamo ad una persona che, ad un certo punto della propria vita, inizia a temere di guidare in autostrada, magari a seguito di un evento traumatico, o a causa di un pensiero ossessivo che non riesce a bloccare (o per qualsiasi altro motivo): la cosa che istintivamente si fa, in questi casi, è cominciare a tentare di evitare il più possibile di ritrovarsi nella situazione temuta, cercando tutti i modi per evitare che accada e facendosi accompagnare da qualcuno di fidato tutte le volte che non si può evitare.

Il fatto stesso di evitare e di farsi aiutare, potrà peggiorare o migliorare la situazione? Evitare qualcosa che si teme non fa che renderla sempre più minacciosa. Ed essere aiutati, sicuramente nel momento stesso fa sentire al sicuro, ma col tempo rinforza la percezione di incapacità e di debolezza: si aiuta chi è debole, non chi è in grado di cavarsela.

Infatti, in casi come questo, in genere la paura diventa sempre più forte, e sempre più ampia: spesso, col tempo si inizia a non guidare più neanche con qualcuno accanto, e si può iniziare a evitare anche le strade a scorrimento veloce, continuando a cercare soluzioni alternative che non fanno che complicare la vita e il problema.

Evitamento dopo evitamento, aiuto ricevuto dopo aiuto ricevuto, si continua a limitare sempre più gli spostamenti e infine, rinuncia dopo rinuncia, si arriverà ad avere la vita “bloccata”, intrappolata nella prigione creata dalle tentate soluzioni disfunzionali.

Il ripetersi di questi copioni (evitare, chiedere aiuto) dà vita ad un circolo vizioso in cui è proprio ciò che la persona fa per sfuggire alla paura che contribuisce a scatenare reazioni emotive e somatiche sempre più intense, che conducono progressivamente alla strutturazione del disturbo e, col tempo, all’aggravarsi della sintomatologia.

La persona, con i tentativi messi in atto illudendosi di far fronte alla sua fobia, si è costruita da sola una gabbia nella quale è rimasta intrappolata.

 

Sono proprio gli sforzi compiuti in direzione del cambiamento a mantenere la situazione immutata: le tentate soluzioni messe in atto dal soggetto e dalle persone a lui vicine per cercare di risolvere il problema finiscono per alimentarlo e determinarne così la persistenza.

Questi tentativi di soluzione sono spesso riconosciuti dalla persona stessa come non funzionali, ma nonostante vi sia una consapevolezza cognitiva, per svariate ragioni non riesce a trovare o a mettere in atto soluzioni alternative, sviluppando così una radicata sfiducia nella possibilità di un cambiamento della propria situazione problematica.

Da un punto di vista strategico, quindi, per cambiare una situazione problematica non è necessario svelarne le cause originarie, ma lavorare su come questa si mantiene nel presente. Se vengono cambiate le modalità percettive del soggetto cambieranno anche le sue reazioni.

Per questo motivo, il professionista si focalizza fin dall’inizio sul rompere questo circuito vizioso attraverso tecniche, strategie e stratagemmi in grado di bloccare e ristrutturare le tentate soluzioni disfunzionali, sostituendole con nuovi e più funzionali copioni percettivi e comportamentali.

Scopo ultimo dell’intervento diviene così lo spostamento del punto di osservazione del soggetto dalla sua posizione originaria rigida e disfunzionale (che si esprimeva nelle “tentate soluzioni”) ad una prospettiva più elastica e funzionale.

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